"Le vite impossibili di Greta Wells" di Andrew Sean Greer - La recensione


Titolo: Le vite impossibili di Greta Wells
Autore: Andrew Sean Greer
Editore: Bompiani
Collana: Narratori stranieri
Traduttore: E. Dal Pra
In commercio dal: 20/11/2013
Pagine: 292



“’Va bene,’ disse alla fine, con uno strattone al guinzaglio di Lady, che barcollò. ‘Solo una cosa.’
La donna ghignò compiaciuta, inarcando un sopracciglio. Lui riuscì a prodursi in un sorriso ironico. E poi se ne uscì con una domanda che le fece fare un passo indietro, mentre noi scomparivamo dietro l’angolo e scoppiavamo a ridere in una risata nervosa, nella sera del nostro ultimo compleanno. Me la portai dentro per tutte le settimane faticose che seguirono, e poi nei sei mesi terribili che mi precipitarono nella tristezza più profonda che avessi mai conosciuto. Lì ritto in piedi, calmo, le chiese:
‘Quando era bambina, signora, era questa la donna che lei sognava di diventare?’”

Se avete avuto il coraggio di mettere “mi piace” alla mia pagina Facebook, o se siete sfortunatamente per voi tra i miei contatti Facebook, l’avrete sicuramente capito: io e il mio unico neurone superstite Renzo andiamo matti per questo romanzo. Ho postato un bel po’ di sue frasi, nel corso della lettura, quindi vi ho tediati abbastanza con Greta Wells e le sue vite impossibili. Che poi non sono proprio così impossibili.

La trama di questo romanzo, in principio (ma solo in principio!), pare semplice e lineare: è il 1985 (Grande Giove!) e c’è questa trentenne newyorkese, Greta Wells, che ha appena perso l’adorato fratello gemello Felix a causa di una grave malattia. Come se questo non bastasse, il suo compagno storico Nathan la lascia dopo un periodo di alti (pochi) e bassi (molti) in cui l’ha pure ripetutamente cornificata. Cioè, per la serie: non solo hai tuo fratello che ha tirato l’ala, nel frattempo ti hanno pure resa un cervo a primavera di quelli dalle corna imponenti, ecco. I soliti uomini eccetera eccetera. Ma non perdiamoci in ovvietà e andiamo avanti.


In alto, una diapositiva di Greta Wells in tutto il suo splendore.

La poveretta è ovviamente sconvolta e prostrata da cotanta sfiga, e tra l’altro Greta è pure orfana come tutte le migliori eroine anni Ottanta più celebri (anni Ottanta ed eroina... che bizzarro accostamento!). L’unica a sostenere Greta e a starle vicino è la zia un po’ fuori di testa che tutti avremmo voluto avere: Ruth, il personaggio che ho amato di più insieme alla signora Green e a Felix. Ruth non è la tipica zia che a Natale ti regala calzini giallo banana e ti tedia con domande tipo: “E il fidanzatino? Quando ti laurei? E quando ti sposi? Quando fai un figlio? E quando fai il secondo figlio? Quando la pianti di fare figli? Ma quando divorzi da quello là? Ma ‘sta laurea a che ti è servita, poi?”. No, Ruth è gentile davvero, premurosa, più simile a una cara amica che a una parente. E poi talvolta è davvero spassosa e, al contempo, incredibilmente profonda.

“Scuoteva nervosamente la testa. ‘È così improbabile essere vivi, no? La temperatura giusta, e la gravità, e gli atomi giusti che si combinano in quel preciso secondo, non penseresti mai che possa succedere.’ Si alzò, fissando un quadro con la mano sulla guancia, poi guardò la gatta che avanzava quatta quatta sulla spalliera del divano puntando il pennuto. ‘La vita è così improbabile,’ disse, e poi si voltò verso di me. ‘È molto meglio di quel che pensiamo, no?’”

Per salvare baracca e burattini da una grave depressione, Greta decide di sottoporsi a una simpatica terapia che dovrebbe aiutarla a star meglio: l’elettroshock. Ora, ho fatto una breve ricerca su questa elettrizzante cura e ho scoperto che negli anni Ottanta, negli Stati Uniti, era molto utilizzata ma che oggi viene usata saltuariamente (in Italia, invece, viene adoperata soprattutto per casi di depressione cronica grave su pazienti che hanno dato il loro assenso  - ma può uno che non sta bene dare il suo assenso? Boh… - e posti, durante il trattamento, in stato di incoscienza per l’effetto di anestetici). Ammetto che, dall’alto della mia imponente ignoranza, non sapevo questa cosa: io ho sempre associato l’elettroshock a qualcosa di negativo e obsoleto, a una pratica aggressiva effettuata in passato nei manicomi o cose simili. Colpa del cinema? Non lo so, ma la parola elettroshock, o “terapia elettroconvulsivante” o “TEC” che dir si voglia, mi causa comunque una certa ansia… poi va be’, a me causano ansia anche le macchie che lascia la pioggia sui vetri delle finestre (quando le finestre devo pulirle io, ovviamente), ma questa è un’altra storia.
E quindi l’elettroshock… Perché mi soffermo tanto su questa cosa? Ma perché è proprio questo che permette a Greta di viaggiare nel tempo (Doc, hai ancora quel flusso canalizzatore che ti sei inventato nel 1955? Beh, e buttalo che non serve…), anche se più che viaggiare nel tempo, Greta viaggia in mondi paralleli del passato, ritrovandosi a fare la spola tra il 1919 e il 1941, per poi tornare comunque all’85.  L’elettricità e le convulsioni la proiettano praticamente nel corpo delle Greta di questi passati alternativi (e le Greta di questi passati alternativi viaggiano a loro volta nello stesso modo, pure loro con l’elettroshock).

La faccia del mio amico Doc quando ha saputo che si può viaggiare nel tempo con l’elettroshock.

Le Greta del passato sono molto diverse tra loro: quella del 1919 è un’adultera mentre il marito è in guerra (ciao Nathan, il karma ti ama!) e quella del ’41 una mogliettina precisina nonostante i cervi a primavera siano notevoli (e non dico altro…). Tutti questi mondi alternativi presentano i loro problemi, ma in entrambi il fratello di Greta, Felix, è ancora vivo per la grande felicità della protagonista. Così Greta, per ammazzare il tempo tra un elettroshock e l’altro, cercherà di risolvere i casini delle vite delle sue copie (e le sue copie cercheranno di risolvere i suoi), tra personaggi più o meno ricorrenti e richiami appena sfumati a fatti storici del passato. Non aspettatevi tuttavia azione o avventure alla Marty McFly: i viaggi di Greta Wells sono più che altro introspettivi, metafisici, spirituali. Non attendetevi, insomma, che cerchi di cambiare la storia della sua vita futura o del mondo (“le conseguenze sarebbero disastrose!”), perché Greta cerca soprattutto un modo per guarire dalla sua grave depressione, per andare avanti e per migliorare le vite delle sue altre incasinatissime controparti. Il tutto è condito da frasi che io ho trovato meravigliose, e da un modo di scrivere sublime, indimenticabile. Non per niente l’autore  di  Le vite impossibili di Greta Wells”, Andrew Sean Greer, è il vincitore dell’edizione 2018 del Premio Pulitzer per la narrativa (l’ho scoperto solo dopo aver letto “Le vite impossibili di Greta Wells”… me misera!) per il romanzo “Less” (la mia “lista dei desideri” si allunga a vista d’occhio ogni giorno… mi basterà una vita intera per leggere tutti i libri che ne fanno parte?).




Il mio giudizio per questo libro è quattro stelline su cinque. Avrei volentieri attribuito a questo romanzo cinque stelline su cinque ma, nonostante io abbia adorato questo libro, non sono proprio riuscita a farmi piacere il finale. Non posso spoilerare, quindi non dirò altro, però alla fine la protagonista fa una scelta che sinceramente non ho capito… È stato secondo me un po’ come se Greta avesse scelto di scappare da ciò che la tormenta, non di affrontare i suoi problemi. Come se, dopo tutti i casini e gli elettroshock e i viaggi nel tempo, Greta non avesse imparato un accidenti, non fosse maturata e avesse deciso di restare comunque trincerata nel suo dolore. Altro punto che non ho gradito è che noi lettori veniamo a conoscenza dei pensieri e delle azioni di una sola Greta, mentre abbiamo solo l’intuizione, attraverso le parole della protagonista, di quello che succede alle altre. Insomma, la narrazione è bellissima, lo stile è perfetto e delicato e certi personaggi (zia Ruth, la signora Green e Felix soprattutto, mentre Greta, in effetti, mi è stata un po’ sulle balle) ti entrano nella mente per saltare fuori nei momenti più impensabili. Magari mentre sei in fila al supermercato e l’anziana signora dietro di te tenta di asfaltarti con la scusa che ha un mucchio di cose da fare (perché anche tu, secondo lei, passi il tempo a spiare i vicini e a guardare la gente passare sotto la finestra di casa) e ti vien voglia di chiederle: “Quando era bambina, signora, era questa la donna che lei sognava di diventare?”. Oppure quando vai dal fioraio e ti viene in mente la parte in cui è scritto:
“’Mi serve un bouquet’, era solito dire Felix ai fioristi, ‘che dichiari: Io terrò lontana la tristezza. Riuscite a confezionarmelo?’ E qualche volta ci riuscivano”. 
Il finale, però, lo avrei preferito diverso, più coraggioso, più incisivo. Nonostante questo, consiglio comunque a tutti questo romanzo che va assolutamente letto e che fa riflettere e fa pensare al dolore, alla vita, al lutto e alla morte, all’amore e soprattutto alla necessità di andare avanti nonostante tutto.

E ora scusate, vado a mettere le dita nella presa della corrente così mi faccio un bel viaggetto in qualche mio passato alternativo dove sono una fighissima ereditiera piena di talenti e celebrità. Au revoir!





        

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