“La piccola libreria di New York” di Miranda Dickinson - Recensione del romanzo

“La piccola libreria di New York” di Miranda Dickinson - La recensione del romanzo

 

Ce l’ho fatta!

Canti di giubilo si levano festanti al cielo: finalmente sono riuscita a terminare la lettura del romanzo “La piccola libreria di New York” di Miranda Dickinson. Una storia che parte da uno spunto interessante ma che, nel corso della lettura, si è rivelata un vero mattone dalle tonalità rosa. Un mattone leeeento. Lentissiiiimoooo. Praticamente una moviola. 

Ma basta chiacchiere! In basso le informazioni utili sul romanzo e la mia recensione (molto) semiseria!

  

 

Trama

La vita di Bea James non è malaccio, se non fosse che il suo fidanzato è un cretino.

Di origini inglesi, Bea vive a New York da anni ed è la proprietaria di una bella libreria a Brooklyn. Ha successo, amici e una bella famiglia unita. Ma il fidanzato è imbecille. E un giorno il suddetto soggetto esagera nella sua imbecillità, così Bea lo molla e tanti cari saluti.

Jake è uno psichiatra che ha dovuto lasciare la sua New York per andare a vivere con la moglie Jess a San Francisco. Ora che però Jess gli ha chiesto il divorzio, lui fa armi e bagagli e se ne torna nella Grande Mela, sforzandosi di ricominciare a vivere praticamente da zero.

Bea e Jake non si conoscono, ma entrambi decidono di dire per sempre addio all’amore e ai casi umani. Ma essere single a New York non è cosa semplice ed entrambi hanno amicizie in comune…

Una sera, Bea si imbuca a una festa di fidanzamento. È l’unica single, non conosce quasi nessuno e si sente a disagio. Sta per andare via, ma decide di passare prima dal bar per affogare i suoi dispiaceri nell’alcol. Ed è qui che conosce l’affascinante barman. Che però non è un barman ma Jake, improvvisatosi barista per nascondere il fatto che è l’unico single alla festa e che si sente a disagio. 

I due si parlano, si intendono. Entrambi single in una città “coppiocentrica”, entrambi con vite sentimentali fallimentari, stringono un patto tra loro: niente più relazioni. Resteranno entrambi single e si supporteranno a vicenda, instaurando uno strano rapporto d’amicizia. Ma la loro è un’intesa troppo marcata e la sottile attrazione che provano l’uno per l’altra non è di certo quella che dovrebbero sentire due amici. E se la vita e New York avessero altri piani per loro? 

 Recensione

Il romanzo “La piccola libreria di New York” di Miranda Dickinson aveva tutte le carte in tavola per essere una piacevole commedia romantica da leggere nei momenti di relax. C’erano i libri della libreria di Bea, la magia di New York e due cuori infranti che meritvano di unirsi per tornare finalmente a battere. E invece no.


La narrazione, impostata con i due punti di vista dei protagonisti, all’inizio scorre: l’introspezione dei due personaggi è ben delineata e la scrittura è dettagliata. Anche le parti descrittive sono particolareggiate, comprese quelle che riguardano la città di New York. E ci sta, soprattutto all’inizio. Ma a un tratto le parti descrittive diventano talmente ridondanti da appesantire ben presto il racconto.

I punti di vista di Jake e Bea, narrati in prima persona, contengono spesso pensieri che si ripetono, sempre uguali, in ogni capitolo. Non c’è, a mio avviso, una vera evoluzione, un cambiamento nei due personaggi. Si schermano costantemente dietro al loro patto “niente relazioni” per nascondere di essere attratti l’uno dell’altra, e va praticamente avanti così per tutto il racconto. E sono gli unici a non rendersene conto, o a fingere di non capire, facendo i finti tonti per tutto il tempo, in maniera che può risultare talvolta davvero irritante.


Parliamo di due adulti, due professionisti affermati – Jake è addirittura uno psichiatra! –, ma per tutto il romanzo si comportano come due tredicenni neanche particolarmente svegli che fanno finta di essere amici (e, più che amici, a me sono parsi due conoscenti che tentano disperatamente di mantenersi sul superficiale). Dimostrando poi, alla fine, di non essere determinati o maturi come si autoproclamano ma solo molto, molto confusi.

C’è poi una sovrabbondanza di personaggi inutili ai fini della trama e di situazioni che si ripetono, dialoghi senza alcuna utilità e, soprattutto nel finale, situazioni davvero troppo dettagliate che rallentano eccessivamente la storia senza aggiungere nulla di nulla al racconto. Pagine e pagine di stallo, dove la storia resta bloccata sempre sui soliti concetti e sulle solite situazioni. Una storia che si sarebbe potuta concludere in meno di 200 pagine, in pratica. E che dire poi del personaggio totalmente surreale di Russ o della nonna ultranovantenne di Bea che manda mail alla nipote?


In conclusione, il romanzo è scritto bene (ed è l’unico aspetto che mi ha spronata a continuare la lettura), ma mi ha trasmesso ben poche emozioni positive, ispirandomi pochissima simpatia soprattutto per i protagonisti. Un romanzo che mi è risultato ostico (giuro che durante la lettura di “Guerra e Pace” o di “Il pendolo di Foucault” ho avuto meno problemi!) e che io consiglio solo a chi ama le storie lente (leeeeenteeeee) e piene di descrizioni. E a chi ha davvero tanta, tanta, ma taaaaanta (tanta!) pazienza. Ma davvero tanta, eh!

 


 

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